Metti una sera in un parco

Ore 18: si beve sidro alla fragola e lime, c’è un tendone bianco a coprire un’orchestra che finisce di provare. È la Royal Philarmonic Orchestra, per la precisione. Sul prato qualcuno scrive con il laptop sulle ginocchia, una ragazza è stesa a prendere il sole, un altro mostra ai bambini il suo cane che ha diciannove anni, anzi no diciassette.

Ore 19: si stendono coperte, si aprono sedie pieghevoli, si tirano fuori panini, insalate, patate arrosto, vino rosé. Che la musica inizi. I bambini corrono in prima fila, a ballare the bumblebee.

Ore 20: si ascolta, tutti seduti sul prato, c’è chi si sdraia, il ragazzo giapponese dai capelli lunghi e il calzino bucato usa le scarpe come cuscino, il direttore d’orchestra scherza col pubblico come fosse una festa di paese, la cantante “se continua così non ci arriva alla fine del concerto”.

Ore 22: Il Claire de Lune di Debussy con il cielo di un blu ancora luminoso, la coperta che per il freddo passa sulle spalle, la standing ovation, i fuochi d’artificio che partono sull’ultima nota del bis.

Applausi.

Leggere meno, vivere di più

Trentacinque anni, capelli raccolti, tailleur beige. Guardando il marciapiede incrocia i miei calzini viola, inarca le sopracciglia, arriccia il naso, sposta lo sguardo sul mio viso e scuote la testa. Siamo a Roma, dimenticavo.

Le cupole sono sempre lì, accanto alle strade dissestate, alle mozzarelle di bufala fresche, alle voci sempre un filo più alte e strascicate.

Credevo mi sarebbe mancata di più, quest’aria di travertino, invece.

M&M’s

C’è una strada, c’è un ponte di ferro su cui passano treni. Sotto c’è un mercato in cui tutto quello che si vende si può mangiare (e tutto quello che si può mangiare si vende). Poteva essere piazza vittorio, la boqueria, il mercato orientale; invece era il Borough Market, i prezzi erano scritti sulle lavagne, i venditori urlavano allo stesso modo, la piantina era tracciata sul disegno di una mucca.

Poi ho preso una scatolina di sushi da mangiare sul lungofiume. Mentre cercavo il posto adatto pioveva, così ho piluccato salmone con l’ombrello in una mano e le bacchette dall’altra, box di carta bianca sulle ginocchia.

Nel museo ho visto tre cose.

La prima è uno spazio vuoto, una enorme scatola aperta solo su un lato. Più ci si spinge dentro, più il buio aumenta. Inquietudine, timore e fascinazione, si cammina verso il nero assoluto cercando di intuire dove andrà a finire, tra le ombre di altri che ti vengono incontro. La fine è inattesa, un muro soffice, nero. Entri credendoti spettatore di emozioni altrui, ti ritrovi a vivere le tue di paure, speranze, limiti. E qualcosa cambia, come un battesimo.

La seconda cosa è stata una mostra su un pittore armeno emigrato in America che si è scelto un nome russo. Il nudo su fondo rosso nella prima sala diceva già tutto. Poi il volto della madre, morta di fame con lui bambino, le sgocciolature nei paesaggi come ricami, l’ultimo quadro bianco e nero, il suicidio. Sono dovuta uscire sulla terrazza a bere un tè alla menta, mi sono scottata la lingua.

La terza cosa è stata la mostra su un olandese di Utrecht che creava avanguardie e giocava a colorare le case. Ho deciso che le avanguardie mi piacciono perché sono divertenti (e finché lo sono). Spezzano, staccano, colorano, cambiano. Poi se diventano ufficiali muoiono.

Viva il DaDa, il colore fucsia e il Bailey’s Hot Chocolate.

Nella foto: How My Mother’s Embroidered Apron Unfolds in My Life, Arshile Gorky (1944)

First Trial

Ieri, prima job interview in London.
Oggi, prima giornata di prova come receptionist in un ristorante.
Ho dimenticato istantaneamente tutti nomi che avrei dovuto ricordare, confuso il tavolo dei Goodwin con quello dei Goodman, mangiato per la prima volta servendomi direttamente dalla cucina, chiesto i cappotti per il tavolo tredici che non è mai esistito, camminato camminato, sorriso, sorriso sorriso, ancora camminato. Tra meno di una settimana mi faranno sapere.
I cuochi li riconosci dalla sicurezza che hanno nello sguardo, i camerieri da come camminano, i clienti dall’aria interrogativa che hanno. Io non riuscivo a smettere di guardare, i movimenti di danza del personale, le cialde, i fritti, il prezzemolo, il vetro, i muri curvi color panna, il signore anziano che arriva da lontano senza aver prenotato, si siede sul sofa e mangia lì, solo e felice.
Uscendo ho sciolto i capelli e guardato l’azzurro, su.

Nella foto: i palazzi sono alti, il cielo di più.

Flash

Notizie flash dalla Britannia:
– Raccolti da terra questa settimana: alcuni elastici, un penny, un tavolo.
– I muffin qui hanno sempre il top croccante.
– Il leader dei Tories rilascia interviste a riviste gay. E in Italia?
– mi affeziono agli smoothies sempre più.
– devo smetterla di chiedere agli Indiani se qualcosa è spicy o no. Risponderanno di no, sarà piccantissimo comunque.

That’s all per oggi. Stay tuned.

Nella foto: attenzione ai sensi di marcia.

London fashion mood

Seduta su grandi cuscini quadrati di velluto arancio nel wi-fi cafe vicino casa, torta al cioccolato da un lato, cup of tea in un bicchiere di carta dall’altro.

Ho comprato un cappotto di lana vintage color cammello, una borsetta verde scuro di pelle, un paio di scarpe tacco alto e vernice nera, ho tirato su i capelli, calcato il trucco e raggiunto il buon Ros ad una catwalk della London Fashion Week.

Funziona così: bisogna avere l’invito, si sta in fila per entrare in un posto buio, ci si siede (se si è fortunati e si ha il bollino giusto sull’invito, io no) poi si accendono i riflettori. Solo a quel punto ci si rende conto che alla fine della passerella c’è un muro di fotografi. Poi la musica, le modelle skinny che camminano lievemente meccaniche. Gli abiti di stoffe e forme e colori impensati.

Tutto così irreale, come la festa ad inviti a cui siamo andati dopo.

Un club con poltrone di pelle e lampadari di cristallo. Vassoi di sushi silenziosi tra modelle, ragazzi patinati, bicchieri di champagne e vodka&cranberry. Noi ci viene da ridere quando riconosciamo sienna miller seduta su un sofa e mamma twiggy che ci sorride con quegli occhi lì. Balliamo, soprattutto e giochiamo a fare le star anche noi, almeno un po’.

L’autobus per tornare, la pioggia, le uova strapazzate mangiate in cucina, le occhiaie che escono struccandomi, il succo di melograno.

Poi stamattina ho pulito il bagno tirandolo a lucido, ne sono orgogliosa.

Week_One

Arrivata da una settimana.

Ho comprato un copripiumino e un nuovo lampadario da Argos, una catena di negozi che vende su catalogo.

Sono pigra, a mio modo. La mattina dormo fino a tardi, vado in un caffè che si chiama 2001 (twothousandone), prendo un cappuccino nel bicchiere di carta, un muffin e sto lì fino alle tre del pomeriggio, a cercare lavoro su internet. Riempio moduli in cui dovrei condensare le mie esperienze, le mie skills, la mia vita. Non ci riesco mai, forse semplicemente non si può. Le invio lo stesso in pasto ai recruiters, che di solito leggono e dicono di no.

Poi torno a casa, magari esco, ma anche no.

Londra mi incanta.

Tower Hamlet, il mio quartiere, mi incanta.

Anche la vita del caseggiato di appartamenti low-budget in cui vivo, mi incanta.

Inizio ad esplorare la vita da qui, da questa stanza con il linoleum finto legno chiaro, la porta dipinta di bianco come le pareti, i tubi del riscaldamento fuori dal muro. Bianca, come la voglio io. Un armadio sghembo che presto getterò via, un paio di pantaloni con un chewingum attaccato dietro. Asciugamani, un vaso con tre narcisi che vengono fuori dai bulbi, un paio di libri di Chatwin, un barattolo di crema idratante a cui ho tolto l’etichetta, la mappa di Londra, un paio di stivali, uno specchio, io.

La porta di casa e la mia finestra danno su un ballatoio scoperto, a destra vivono delle ragazze inglesi, bionde, sorridenti. A sinistra sono poggiati a terra scatoloni, sacchi di plastica che prima contenevano terriccio, un cestino con mollette da bucato, dei supporti di metallo su cui sono appese pezze di stoffa lisa di colore indefinito, una bacinella di plastica blu incrostata di calcare. Ci vive una signora bassa, forse bengalese, che cucina curry ogni giorno per un certo numero di ragazzi dagli occhi scuri che credo siano i suoi figli. Le scale odorano di mercato, a volte ci sono sacchetti di patatine vuoti gettati negli angoli, però ci sono vasi rampicanti con fiori gialli appesi accanto ad alcune porte.

Il palazzo è in brick, mattoncini rossi che mi ricordano i lego, e intorno ha un prato verde su cui però non credo si possa camminare. Almeno, non ho mai visto ancora nessuno farlo.

Sono pigra, dicevo, e raramente sono uscita dal quartiere.

Ogni volta che esco di casa e vado verso Brick Lane aspetto di vedere spuntare la sagoma del grattacielo di Norman Foster, una elegante pallottola di vetro e acciaio, che sovrasta la fila di ristoranti indiani kitch con le vetrine incorniciate di legno colorato e i ritagli di giornale attaccati con lo scotch accanto all’ingresso.

Spezie e acciaio, graffiti e case vittoriane. Vecchie fabbriche diventano mercati o centri culturali, vecchi magazzini vengono riconvertiti a studi di design. Negozi vendono vestiti di trenta anni fa anticipando la moda dei prossimi anni.

Questo gioco di angoli girati, di carte sfuggite all’ordine, di sfasamenti di tempo e spazio, è il motivo per cui sono qui, in questo posto sbilenco, disordinato e precario, proprio per questo “mio”.